Le prossime elezioni europee saranno fondamentali per il modello agricolo italiano. In ballo c’è un settore che ha saputo esprimere dinamicità, economia e tutela del territorio. Ogni passo indietro si scaricherebbe, con danni enormi, in particolare su una regione come la Campania, che ha trovato una traiettoria di futuro in un nuovo modello agricolo, sostenibile e custode della biodiversità. Chiediamo ai nuovi parlamentari europei di sostenere i veri agricoltori, la trasparenza e le produzioni di qualità”. È il messaggio di Gennarino Masiello, vicepresidente nazionale di Coldiretti e presidente di Coldiretti Campania, alle forze politiche in campo per le elezioni europee del prossimo 26 maggio. Difesa delle risorse per l’agricoltura, a partire dalla Pac, obbligo dell’origine in etichetta, eliminazione del codice doganale per identificare il made in Italy, revisione degli accordi di libero scambio, standard produttivi uguali per tutti, sono i cinque impegni cardine del documento predisposto della Coldiretti, che sarà presentato a tutti i candidati delle forze politiche in lizza sul territorio nazionale.
Come è cambiato lo scenario europeo
La “grande globalizzazione” che ha preso il via negli anni 90 sembra conoscere un processo di ritorno: ripartono con maggior o minor vigore le antiche pulsioni nazionali, si riaffermano le identità territoriali e il nuovo precario ordine ne viene intaccato. Brexit, gli embarghi alla Russia, le “guerre commerciali” – minacciate o reali – fra Usa, Cina e Ue, l’autentico “no deal” (esso si, drammaticamente effettivo) in larga parte del Medio Oriente, ne rappresentano la viva e quotidiana testimonianza. La presunta “armonia” – già messa pesantemente a repentaglio dalla crisi prima finanziaria, poi economica e sociale iniziata nel 2008 – sembra perduta. L’Italia – in considerazione del suo profilo geopolitico – è al centro di questo turbamento epocale. E con l’Italia lo è la sua agricoltura. Per molteplici ragioni. Perché l’agricoltura italiana in questo lungo decennio di depressione ha svolto una cruciale funzione anticiclica: la produzione agricola nel decennio è cresciuta dell’11,2% e il valore aggiunto agricolo dell’8,6%. Perché l’export l’agroalimentare cresce nel decennio del 70,9% raggiungendo la cifra 41,8 miliardi di euro a fine 2018. Perché i prodotti del nostro agroalimentare – in virtù della loro chiave distintiva – hanno per l’insieme della reputazione del Paese, un valore simbolico altissimo. In questa luce, serve che i futuri rappresentanti italiani al Parlamento Europeo – proprio a partire dalle radici europeiste, oggi appannate ma non cancellate, della nostra comunità – in un delicato equilibrio fra interessi nazionali e interessi europei, sappiano tutelare e proteggere questo patrimonio.
Pac, un punto non negoziabile
La prossima legislatura sarà fondamentale per l’assetto della politica agricola comune (Pac). Ancora una volta la Commissione ha individuato quale principale indiziato su cui scaricare i prevedibili tagli di bilancio, questa volta dovuti alla Brexit, gli agricoltori. Crediamo che non si possa continuare su questa strada che, peraltro, stride con gli obiettivi, da più parti sbandierati dalla Commissione Ue, di un’Europa che investe nelle sue campagne come fattore di riequilibrio ambientale, sociale ed economico. Chiediamo che non debba essere l’agricoltura a pagare di nuovo il conto. Occorre riequilibrare invece la spesa facendo in modo che la Pac possa recuperare con forza anche il suo antico ruolo di sostegno ai redditi e all’occupazione agricola per salvaguardare un settore strategico per la sicurezza e la sovranità alimentare e per contribuire alla crescita dell’intera economia europea attraverso la filiera produttiva che esso alimenta. Un obiettivo che deve essere raggiunto con una convergenza esterna ed interna per rendere i pagamenti diretti coerenti con parametri come i costi di produzione, il lavoro ed il valore aggiunto.
Origine e trasparenza
Accanto alla Pac – su un piano di assoluta parità – c’è la questione dell’etichettatura obbligatoria con l’indicazione dell’origine agricola per tutti i prodotti alimentari. In questa legislatura è stata persa un’occasione per realizzare quella trasparenza richiesta in primo luogo dai consumatori che in larga maggioranza, tanto a livello europeo che nazionale, vedono nell’origine degli ingredienti un fattore fondamentale per nella scelta di acquisto. La scelta dell’Europa su questo argomento è stata ancora una volta miope: ha scelto di guardarsi indietro, tradendo le aspettative dei consumatori e di tutti quegli operatori del made in Italy che competono lealmente, agendo sulle leve della qualità e della fiducia dei consumatori. L’obiettivo della nuova legislatura deve essere quello di assicurare le stesse garanzie di trasparenza dell’informazione sui cibi in tutta l’Unione Europea dove rischiano di entrare in vigore nell’aprile 2020 norme fortemente ingannevoli per i consumatori.
D’altronde, in tema di trasparenza, proprio in questi giorni è arrivata una sentenza storica del Consiglio di Stato, il cui pronunciamento è stato sollecitato proprio dalla Coldiretti, che dà atto della palese insussistenza dei motivi di riservatezza circa la provenienza delle materie prime agricole importate. Viene così messa fine ad una complessa e fitta maglia di norme e procedure doganali che dietro in nome della “privacy” (di chi?) celano un sistema che solo in Italia utilizza circa un terzo di materie prime straniere che diventano poi sul mercato prodotti made in Italy.
Sul terreno della trasparenza resta di fondamentale importanza modificare la norma relativa all’ultima trasformazione sostanziale che consente di nascondere dietro il paravento di una singola, e magari minima, lavorazione un cambio di voce doganale che consente di scrivere made in Italy. Così agitando o mescolando qualcosa che viene da chissà dove l’industria riesce, e con le vigenti norme legittimamente, a fare giochi di prestigio sul mercato. Parallelamente sui mercati ci troviamo ad arginare iniziative come quella dell’etichetta a semaforo inglese, legata principalmente all’azione di 4 grandi multinazionali del cibo come Coca cola, Pepsi Co, Mars e Nestlè. Per spingere l’Unione Europea verso un percorso di tutela delle richieste dei cittadini consumatori Coldiretti ha contemporaneamente promosso un fronte europeo per la trasparenza in etichetta con la raccolta di un milione di firme in almeno 7 Paesi dell’Unione (www.eatoriginal.eu).
Per un commercio libero e giusto
La difesa degli interessi degli agricoltori, degli altri operatori virtuosi del sistema e dei consumatori coincide: questo è il grande punto di forza che ci ha permesso di mobilitare, con un successo a dir poco sorprendente, moltissime energie attorno alla critica che abbiamo rivolto all’Europa sul tema degli accordi commerciali. Occorre infatti migliorare e armonizzare – con un incessante interlocuzione di tutte le parti coinvolte – tutti quegli accordi di libero scambio (Ceta, Giappone, e in prospettiva il Mercosur, Nuova Zelanda) che potrebbero minacciare le nostre identità e le nostre produzioni. E’ necessario che tutti gli accordi vengano ratificati dai parlamenti nazionali e serve il coinvolgimento delle organizzazioni agricole più rappresentative a livello nazionale nella fase di negoziazione e implementazione. Dal punto di vista commerciale ed economico contestiamo innanzitutto l’esiguità della strumentazione prevista in tali accordi per difenderci dall’agro-pirateria e più in generale dal cibo falso. Oggi l’Italian sounding supera i 100 miliardi di euro l’anno e non possiamo consentire che siano proprio gli accordi a favorirne l’estensione. Gli stabilimenti, la produzione e le quote di mercato di Parmesan e di Romano cheese in Canada crescono, mentre nelle stalle della Sardegna si combatte per un centesimo in più. Inoltre, non possiamo consentire che i nostri partner commerciali possano decidere quali denominazioni d’origine riconoscere e quali no.
Cibo e terra
Dal punto di vista dei consumatori crediamo che favorire il commercio internazionale non debba significare abbassare il livello complessivo delle tutele. Dobbiamo garantire che i prodotti importati in Europa rispettino quelle garanzie di sostenibilità e salubrità che sono richieste ai prodotti fatti nell’Ue.Va infatti considerato che il numero di prodotti agroalimentari extracomunitari con residui chimici irregolari è stato pari al 4,7% per quelli provenienti da paesi extracomunitari rispetto alla media Ue dell’1,2% e ad appena lo 0,4% dell’Italia (dati Efsa). Se impediamo, giustamente, ai nostri agricoltori di utilizzare sostanze che riteniamo poco sicure per l’alimentazione, possiamo poi permettere che arrivino sulle loro tavole da fuori? Quale è il senso? Perché possiamo importare dal Canada grano trattato con glifosato in pre-raccolta mentre nelle nostre campagne è, giustamente, vietato? Perché dobbiamo importare riso dal Vietnam sul quale pesa l’accusa di essere ottenuto con lo sfruttamento del lavoro minorile oltre alle forti perplessità sul livello di sicurezza alimentare? E spesso questo accade proprio grazie ad accordi agevolati dell’Unione Europea come nel caso delle condizioni favorevoli che sono state concesse al Marocco per pomodoro da mensa, arance, clementine, fragole, cetrioli, zucchine, aglio, carciofi, olio di oliva, all’Egitto per fragole, uva da tavola e finocchi, oltre all’olio di oliva dalla Tunisia che non rispettano certo le stesse garanzie vigenti a livello nazionale in materia di lavoro, ambiente e salute. Il risultato non può essere quello di ridurre il livello di sicurezza per i consumatori e minare la competitività dei nostri produttori. Crediamo, inoltre, che sia necessario un intervento chiarificatore sul tema delle tecniche di mutagenesi, che la Corte di giustizia europea ha equiparato agli organismi geneticamente modificati. Riteniamo che laddove le tecniche di mutagenesi producano mutazioni che sono indistinguibili dalle mutazioni che si verificano spontaneamente in natura o da quelle ottenute con tecniche convenzionali di mutagenesi, l’argomento va disciplinato diversamente, garantendo che i benefici del progresso scientifico che rispettano i principi di sostenibilità etica e ambientale, siano disponibili agli agricoltori europei. Infine il problema del consumo del suolo e della perdita di fertilità dovuta anche al fenomeno della desertificazione dei terreni. Il suolo è una risorsa fondamentale non solo per il futuro dell’agricoltura ma per la crescita sostenibile di tutti i territori europei.
GLI IMPEGNI DA ASSUMERE IN EUROPA
Il numero di Paesi che sta andando in questa direzione e l’esigenza sempre più diffusa tra i consumatori di conoscere la provenienza dei prodotti agricoli alla base del cibo che consumano, aprono importanti spazi di manovra. Questi devono essere capitalizzati nella prossima legislatura – scongiurando quindi l’entrata in vigore nel 2020 dell’attuale impostazione delle norme comunitarie – per portare a compimento il lavoro avviato in Italia prima con i decreti sperimentali su pasta, riso, latte e pomodoro ed ora con l’estensione a tutta la produzione alimentare nazionale.
L’idea che sia il settore agricolo a pagare il conto per la Brexit o a fare spazio a nuovi interventi europei non è accettabile. In questo senso chiediamo un impegno esplicito a chi si candida a rappresentare l’Italia in Europa. Riteniamo che l’Uscita del Regno Unito dall’Europa vada quanto più possibile posticipata e, se ne esiste ancora l’opportunità, scongiurata. Non solo per ragioni di bilancio ma anche per ragioni commerciali e crediamo che in ogni caso vada preservata l’appartenenza del regno Unito all’unione doganale. Ribadiamo, inoltre, la necessità di lavorare ad una Pac che offre un livello sempre maggiore di servizi ambientali, ma anche capace di premiare i valori economici e sociali generati dall’agricoltura: per queste ragioni chiediamo che la ripartizione delle risorse tra i Paesi membri sappia riconoscere il valore delle diverse agricolture dell’Europa, valorizzando criteri come il valore aggiunto e l’occupazione.
Il codice doganale – che definisce come “luogo di origine” dei prodotti il Paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale – non può più essere una cassetta degli attrezzi con cui costruire opacità. In tal senso occorre l’apertura di un cantiere per la modifica del modello di regolamentazione europea che deve diventare uno strumento trasparente e finalizzato alla creazione di fiducia. Per ricomporre un quadro di trasparenza verso i consumatori e di sana competizione tra gli imprenditori del settore, bisogna revisionare la classificazione doganale che fa riferimento al principio di ultima trasformazione sostanziale, definendo nuovi sistemi classificatori coerenti con l’esigenza di comunicare al mercato chi, dove e come ha contribuito a produrre quello che mangiamo.
La Coldiretti è consapevole dei benefici che derivano dalla possibilità di eliminare gli ostacoli tariffari e consentire una più fluida circolazione delle merci. Tuttavia anni di conquiste dei consumatori europei non possono essere pregiudicate da meri interessi commerciali.Chiediamo, quindi, che la revisione e la stipula degli accordi commerciali si ispirino al principio di reciprocità. Ossia quello che non è consentito in Europa perché potenzialmente dannoso per i consumatori, per i lavoratori o per l’ambiente non può essere fatto entrare da un portone laterale. Crediamo, quindi, nella necessità di coinvolgere le organizzazioni agricole più rappresentative nella costruzione degli accordi commerciali e nella loro valutazione.
Risulta, inoltre, fondamentale, ridurre alcune incomprensibili anomalie che in questo momento stanno governando il modo in cui si confezionano e si implementano gli accordi bilaterali per la parte relativa al commercio agroalimentare. La prima riguarda il riconoscimento delle indicazioni geografiche: è il sistema a dover essere riconosciuto nel suo complesso e non solo una parte di questo. Il primo passo in questa direzione è la revisione degli accordi, a partire dal CETA, in funzione dell’ampliamento della lista delle indicazioni geografiche riconosciute. La seconda anomalia è la mancanza di strumenti credibili per il contrasto all’italian sounding: se da un lato il CETA dice di riconosce alcune indicazioni geografiche italiane dall’altro non le tutela dalle imitazioni, la cui presenza sul mercato canadese, al contrario cresce.
Infine, va sottolineata l’anomalia, anzi la distorsione, dovuta al sistema delle quote di importazione che riguarda in particolare i nostri formaggi. Va rivisto, negli accordi, il sistema delle quote di importazione e della loro gestione, che penalizza i nostri produttori e favorisce nel caso del CETA quelli canadesi in funzione degli andamenti del mercato.
E’ necessario che tutti i prodotti che entrano nei confini nazionali ed europei rispettino gli stessi criteri, garantendo che dietro gli alimenti in vendita sugli scaffali ci sia un analogo percorso di qualità che riguarda l’ambiente, il lavoro e la salute. Ciò è del resto in linea con lo storico e recente pronunciamento della Corte dei Conti Europea sul mancato rispetto nei cibi di provenienza extraUe degli stessi standard di sicurezza Ue sui residui di pesticidi.