Se è vero il concetto di contestualizzazione dei fatti storici e di conseguenza arbitrario misurarli e valutarli con gli strumenti della modernità è pur vero che da quegli accadimenti si possono trarre spunti per arricchire l’analisi storica e forse rileggerla in maniera più dettagliata e doviziosa. Lo spunto scaturisce dal processo ai 26 anarchici del Matese e che nel 1878 tentarono di innescare la fiamma dell’insurrezione presso le derelitte masse rurali del Matese. Ventisei persone di cui si sono tornati ad occpuare l’Istituto Storico del Risorgimento, nella persona di Gino Razzano, e l’Unisannio con il Rettore Canfora che a Palazzo Paolo V hanno ipotizzato una sorta di riocostruzione storico-processuale di quello che fu il vero dibattimento che avvenne a Benevento proprio nel 1878.
E allora ad Antonella Marandola il ruolo della Pubblica Accusa, a Luigi Diego Perifano quello che della difesa, a Bruno Tommasiello quello di giudice e con Piero Marrazzo nel ruolo di raccordo ed io narrante. Un processo che infiammò l’opinione pubblica, che il Governo Depretis, il primo di sinistra dopo gli anni della Destra Storica, cercò di indirizzare tentando di svuotarne il portato ideologico e politico a vantaggio di quello meramente criminale, era rimasto ucciso un carabiniere, e che si risolse con l’assoluzione di tutti gli imputati che godettero dell’amnistia dopo la morte di Vittorio Emanuele.
Cosa rimane di quella esperienza? Di certo l’intento propagandistico di quell’azione ben sapendo di non poter ottenere di più, il prevalere del diritto sulla repressione militare, le basi della liberaldemocrazia postunitaria sembravano più solide rispetto all’epoca della guerra civile in cui lo Stato sabaudo impegnò tutta o quasi la sua forza militare per schiacciare ciò che tentò di delegittimare come brigantaggio e che combattè nel segno della Legge Pica con violenza inaudita.
Un capitolo quello anarchico a suo modo romantico ma che la ricostruzione operata dagli intervenuti ha giubilato come violenza eversiva, probabilmente omettendo che quella forma acerba di democrazia teneva proprio le masse rurali in uno stato di estrema indigenza e che una delle molle dell’operazione unitaria fu all’insegna della terra ai contadini e della riforma agraria, tutte cose regolarmente deluse. Ed è contro le similitudini storiche che si è appuntato l’intervento di Walter Veltroni.
L’ex segretario del PD ed ex sindaco di Roma ha tenuto, come lo stesso Rettore Canfora, a mettere in guardia dalla tentazione di analogismi incauti con eventi di epoche successive. “Le fasi storiche vanno analizzate ma mai decontestualizzate”, ha detto Veltroni, epperò sta di fatto che la brutalità della reazione dello Stato Liberale ad ogni forma di dissenso nei confronti del potere dominante fu tremenda e a ciò serva il riferimento ai moti di Milano del 1898, una ventina d’anni dopo e coi socialisti in Parlamento, e Bava Beccaris che spara sulla folla e uccide 83 dimostranti. E allora chi furono i veri carnefici della classe lavoratrice e delle masse rurali? Questo il convegno di Palazzo Paolo V, nella sua prestigiosa cornice, non ce l’ha dimostrato.