Thomas Mann e la questione ebraica negli anni antecedenti e successivi all’avvento del Nazionalsocialismo in Germania. La figura del grande scrittore dei “Buddenbrook” e “La morte a Venezia”, tanto per citare due dei grandi romanzi dell’anseatico, negli anni bui della presa del potere di Hitler che egli visse con angoscia e profonda avversione tanto da esiliare volontariemante prima in Svizzera e poi negli Stati Uniti. Mann, premio Nobel per la letteratura nel 1929, non fece mai più ritorno in Germania sin da quel 1933, quando riparò a Zurigo e poi dal 1939 in California, nemmeno quando, a guerra finita, gli fu offerta la carica di Presidente della neonata Repubblica Federale Tedesca. Preferì restare nel cantone di Zurigo dove morì nel 1955. L’Università telematica Giustino Fortunato ha inteso incentrare sulla figura dello scrittore di Lubecca il quinto dei sette incontri programmati nell’ambito del laboratorio Shoah: memoria, didattica e diritti promosso e coordinato dal professore Palumbo. Relatore Domenico Conte, ordinario di storia della filosofia presso la Federico II di Napoli, che ad un pubblico di adolescenti ha spiegato le mille contraddizioni di un periodo storico complesso e brutale e in quel contesto l’azione di un intellettuale del tutto immerso in quelle contraddizioni, finanche ambiguo rispetto alla succitata questione ebraica. La contraietà al Sionismo, per esempio, già espressa dal 1907, e la necessità invece di una maggiore integrazione dell’elemento ebraico in un tessuto sociale, come quello tedesco, non più problematico rispetto alle altre nazioni d’Europa. Basti pensare alla Francia o alla Russia zarista e poi sovietica e alle relative discriminazioni.
