“E ora la palla passa a me”. Dal libro di Antonio Mattone l’invito ad una analisi sociologica e psicologica della detenzione e degli interventi possibili.
Una sorta di ipocrisia vittoriana ammanta da sempre la questione della detenzione carceraria in Italia. Da un lato l’art. 27 della Costituzione […Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato…], dall’altro una facile risoluzione ai problemi della mancata rieducazione e reinserimento sociale che hanno valso all’Italia, tra l’altro, la condanna di Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo del 2013 per trattamento inumano ai detenuti. Un vuoto legislativo lascia all’azione dei tanti volontari operosi e al senso di umanità di chi vi opera quanto invece andrebbe sancito per vie legali.
Ospite ieri presso la sede del Centro di Cultura “Raffaele Calabria” è Antonio Mattone, esponente della Comunità di S. E gidio di Napoli. Autore del libro “E ora la palla passa a me. Malavita, solitudine e riscatto nel carcere”. A commentare i temi scottanti connessi con la condizione carceraria sono intervenuti S.E. Mons. Felice Accrocca Arcivescovo di Benevento, Cosimo Giordano, già direttore di carceri italiani e tra questi, del carcere di Poggioreale a Napoli; il vicesindaco di Benevento Mario Pasquariello. Ha moderato i lavori Ettore Rossi, direttore dell’Ufficio per i problemi Sociali e il Lavoro della diocesi di Benevento che ha ricordato come il Laboratorio CIVES intende mantenere un’attenzione costante sulla realtà del carcere, avendo già approfondito il tema della giustizia riparativa. “Se la società si divide tra chi vuole cancellare anche dalla vista le carceri e chi vuole costruire un ponte tra questo mondo e la comunità, noi siamo da questa seconda parte, perché abbiamo un’umanità che ci accomuna indipendentemente dagli errori commessi da chi è attualmente dietro le sbarre”. Luisa Del Vecchio e Antonio Assante hanno letto alcuni passi tratti dal libro.
Cosimo Giordano ha ripercorso gli anni bui del carcere di Poggioreale quando, in strutture fatiscenti e in condizione di promiscuità, di carenze del sistema sanitario interno e di incapacità di offrire percorsi alternativi di recupero, si consumava il fallimento del sistema carcerario e si lasciava di fatto nelle mani dei clan malavitosi la conduzione della struttura. Il direttore ricorda la mattanza dei detenuti avvenuta in occasione dell’apertura in via precauzionale delle celle a seguito del terremoto del 23 novembre del 1980. Anche il mondo dalla parte dei “giusti” contò le sue vittime: sei agenti di custodia furono trucidati nello stesso periodo. Le mura del carcere sembravano permeabili: vi si nascondevano coltelli, armi automatiche e candelotti di dinamite. Fu il fallimento dello Stato, che rispose con la linea dura, “necessaria ma non esaustiva”, sottolinea Giordano. Fu allora che si comprese che la formula del “rinchiudiamoli e buttiamo via la chiave” aveva fatto il suo tempo. La sentenza Torreggiani, pronunciata dalla Corte di Strasburgo nel 2013, racconta il direttore, aprì la via ad un nuovo modo di concepire la detenzione, anche se ad oggi la strada da percorrere in tal senso è ancora impervia. Molta la riluttanza, anche dello stesso personale di polizia penitenziaria che teme per l’ordine e la sicurezza interna quando si affronta il tema delle carceri aperte. La società civile in genere è disorientata dal clima di recrudescenza terroristica, che finisce col frenare anche il legislatore, “anche per motivi meramente elettorali”, denuncia il vicesindaco Mario Pasquariello che, pure, riconosce la necessità di offrire riscatto a chi lo cerca e pone in capo alle autorità legislative la responsabilità del cambiamento. “Se solo ripercorriamo le condizioni ulteriori di abbrutimento di questa estate: quaranta gradi da affrontare in condizioni di sovraffollamento, comprendiamo come una svolta sia non solo necessaria, ma urgente”. S.E. Mons. Accrocca ripercorre la sua esperienza presso una comunità di recupero per tossicodipendenti. “Tutti i ragazzi avevano già affrontato il carcere e questo non li aveva resi migliori”, sottolinea. Perseguire la linea del “buttiamo via la chiave”, argomenta, “paga elettoralmente ma costa allo Stato in termini economici e sociali”. Di fatto ogni detenuto costa allo Stato circa 184 euro al giorno. Denuncia il vuoto gridare nei talk show ed invita a non ragionare con la pancia, ma a riflettere nei tempi e nelle modalità necessarie ad affrontare temi così scottanti, la cui risoluzione non può che riverberarsi con esiti positivi sulla società. Poi conclude con una riflessione sull’attualità dell’arruolamento nelle fila del fondamentalismo e il parallelismo con l’antico arruolamento degli emarginati nella rete della camorra. C’è evidentemente un problema sociale, ma anche valoriale, che va affrontato per evitare a monte che si finisca in carcere.
“Solo perché si è stati in carcere non vuol dire che si diventi migliore”. Così esordisce Antonio Mattone che per l’esperienza ventennale di volontariato si sente di ribadire che il carcere impoverisce, rende disumani e allontana dagli affetti, gli unici che, invece, possono aiutare il recupero. Introduce il tema della giustizia riparativa e riporta il caso del figlio di Giuseppe Salvia, cui è intestato il carcere di Poggioreale essendone stato vicedirettore e fatto uccidere dalla camorra per ordine di Cutolo. A distanza di anni dall’uccisione del padre il giovane figlio chiese ed ottenne di poter partecipare alla messa di Natale nel carcere insieme ai detenuti, ma in incognito. Da allora, precisa l’autore, non manca di farlo ogni anno ed ha coinvolto anche sua madre. Evidentemente non è la negazione dell’altro, ma il recupero e la riabilitazione che sottraggono vittima e carnefice all’ergastolo del “fine pena mai”, intesi in termini di sofferenza interiore, mai rielaborata.