MONTESARCHIO – “L’ Erede”, questo il titolo dell’opera del giovane Gabriele Crispo. Un libro, il primo di una trilogia, di carattere religioso-spirituale. La narrazione inizia con la presentazione degli ordini angelici, ai quali Dio ha lasciato il compito di governare la Terra, ormai lasciata al suo destino. Difatti Dio è scomparso, secondo i più morto. Il mondo ignora l’ordine divino che lo governa e questo a ragione: non sarebbe in grado di comprendere, verrebbe sconvolto da tanta conoscenza.
Gli eventi che vengono narrati sono figli della Seconda Guerra Mondiale. Nel romanzo questa è stata causata dagli eredi di Asmodeo. Secondo diverse culture arcaiche Asmodeo è il Dio del Male. L’essere demoniaco ebbe due figli Satana e Lucifero. Costoro mossero l’agire dell’umanità negli anni della Grande Guerra, aiutati dai figli Arnold e Tresix.
Nel libro la guerra si conclude con un intervento angelico. Ma ovviamente il Trono del Male è occupato da un Erede, che brama vendetta: costui pianifica l’assoggettamento dell’umanità al Culto del Male. Angelus tragici; città distrutte; sacrilegi dei luoghi di culto; terremoti e tempeste perpetrate dal male ai danni dell’umanità; morte e distruzione. Personaggi controversi si trovano protagonisti di questa tentata Apocalisse. Il male seduce il lettore e lo conduce sulla strada della perversione morale. L’Erede è l’inizio della fine della lotta eterna.
Le vicende della narrazione diventano sempre più cupe man mano che i capitoli scorrono. Il libro è scorrevole e privo di scopi esegetici. L’autore si propone di raccontare una verità: la sua verità. Questa viene romanzata in una parafrasi scorretta, ma consapevole dei testi. La trilogia si vuole presentare come un’ allegoria della realtà: lo scontro tra culture a cui siamo sottoposti.
Gabriele nasce a Benevento nel 1993. Appassionato di politica ha un profondo senso della giustizia e del rispetto per altri. Studia Giurisprudenza e spera di diventare un giorno giornalista. Dotato di fervida immaginazione decide, dopo anni di reticenze, di approcciarsi alla scrittura per rendere concreti i suoi pensieri, nonostante gli riesca meglio parlare. È giunto alla conclusione che gli sia più affine la scrittura in quanto asserisce citando Caio Tito “verba volant, scripta manent”.