Non si è fatta attendere la controrisposta di Piero Masdtroberardino alle parole del presidente di Confindusatria Avellino De Vizia in riferimento alla crisi in atto alla Camera di Commercio Irpinia-Sannio. E la risposta non è men dura.
“Il presidente di Confindustria Avellino Emilio De Vizia mi dedica su queste pagine un intervento stampa piccato e alquanto scomposto, all’insegna del “chi sei tu e chi sono io”.
Solo al fine di mantenere un profilo corretto di informazione, offro alla pubblica opinione una breve replica.
De Vizia in primo luogo risponde al tema della inopportuna assenza di separazione tra mondo economico e ambienti politici, ammettendo di essere stato “a casa di Mastella per parlare di questa vicenda” (il rinnovo degli organi di governo della CCIAA Irpinia Sannio, NdR).
Poi, per giustificare agli occhi del pubblico questa sua azione (evidentemente in modo implicito ammettendone la bizzarria rispetto ai canoni di un’ortodossia istituzionale), afferma che anche qualcun altro ci sarebbe andato a perorare altre cause, ma precisa che quel tale non risponde al mio nome. Bene ha fatto, aggiungerei. In fin dei conti, nel confessare la circostanza, certifica anche la sostanziale differenza di comportamenti tra me e lui.
Quindi, calcando l’accento sul mio titolo accademico, afferma che né lui né Bruno possono accettare da me alcuna lezione su come si faccia attività d’impresa, evocando quali parametri discriminanti a loro vantaggio “i numeri e le storie” delle loro imprese, e mi invitano a studiarli per capire e, casomai, paragonarli ai numeri dell’azienda della mia famiglia.
Credo che questo passaggio sia il più infelice che Emilio De Vizia potesse fare nella veste di presidente pro tempore di Confindustria Avellino. Ha infatti citato, improvvidamente in entrambi i casi, prima i “numeri” e poi la “storia”.
Sui numeri, è il caso di far presente a De Vizia che le imprese non si pesano solo per il potere del danaro, che questo improvvisato “machismo” (o “ce-l’ho-durismo”, si direbbe con un neologismo in voga) mal si addice a chi ha l’ambizione di rappresentare un intero comparto produttivo.
La dimensione può pure avere un peso, ma non è da sola sufficiente a qualificare la bontà dell’impresa. Bisogna capire se quel peso economico si traduce in valore dell’impresa, se questo si tramuta poi in valore per gli stakeholders, se viene cioè correttamente redistribuito, se il valore economico riesce a diffondere valore sociale ed ambientale, se l’impresa che si esercita è sostenibile in chiave di sviluppo futuro, se l’imprenditore rispetta i propri collaboratori e li gratifica per il loro impegno, se opera entro le regole della civile convivenza o se incorre in infortuni che lo pongono all’attenzione del pubblico per condotte discutibili o non commendevoli.
Ragionando per assurdo, purtroppo, non mancano attività economiche di enorme peso finanziario che, notoriamente, sono emblemi dell’illegalità.
In secondo luogo, quando si rappresenta la compagine delle imprese industriali della provincia di Avellino sarebbe il caso di mostrare maggior sensibilità per non rischiare di offenderle, atteso che la stragrande maggioranza di esse è composta da imprese piccole e talvolta persino micro-imprese.
Inoltre, proprio chi è espressione di imprese di maggiori dimensioni di regola evita di assumere ruoli di vertice nelle rappresentanze dei corpi intermedi, in modo da favorire il coinvolgimento nelle decisioni della platea degli associati. È un’eccezione, ad esempio, che l’avv. Agnelli abbia assunto, un’unica volta nella sua pur lunga carriera, la presidenza degli industriali italiani: erano gli anni Settanta, e si attraversava una delle più gravi emergenze nazionali del recente passato.
È il motivo per cui, ad esempio, in provincia di Avellino negli ultimi vent’anni ho sempre rifiutato di assumere la presidenza degli organismi rappresentativi della nostra filiera produttiva, preferendo lasciare la poltrona di vertice ad esponenti di aziende più piccole, considerato che nel mio settore il peso economico della mia azienda non può esser ritenuto trascurabile.
Ancora, sarebbe il caso che l’autore di quei pensieri apprendesse che i valori differiscono da settore a settore, che sarebbe risibile confrontare, ad esempio, i “numeri” dell’industria pesante o quelli di aziende che vivono di gare d’appalto e di rapporti con la Pubblica Amministrazione con quelli di un’azienda dell’agroalimentare che si rivolge al consumer market. Ma forse scendiamo in argomenti troppo sottili.
Il secondo elemento di confronto con cui il De Vizia vuol “lavarmi la faccia” è la storia delle nostre rispettive imprese. Consentitemi su questo punto di astenermi da ogni commento e di stendere un velo di pietoso pudore.
In conclusione, probabilmente questi argomenti non sono agevolmente metabolizzabili dal De Vizia, che anche in questa circostanza non ha perso occasione per manifestare una distanza abissale nell’approccio ai temi della cultura d’impresa e a quelli della rappresentanza.
Sono certo che potrà essergli utile tornare proprio sui banchi di studio che nel suo intervento ha finito per denigrare, rivolgendosi non certo a me, che non sarei all’altezza del compito, bensì a uno dei tanti miei autorevoli colleghi aziendalisti che combattono ogni giorno per vincere le resistenze degli allievi più ostici e riottosi.”