Le parole del Vescovo di Avellino, Mons. Arturo Aiello, rivolte alla comunità in questo momento così difficile.
So che a molti questa epistola parrà inutile, oziosa, noiosa, addirittura dannosa dal momento che non bisogna parlare di fune in casa dell’impiccato. Eppure sento forte il bisogno di rivolgermi a voi che affollate i bollettini di guerra di questi giorni, uomini e donne che avete incontrato la morte in prima linea e che per noi siete semplici unità addizionate a un cumulo di cui si tace nome, cognome, età.
Voi siete stati, in questa guerra ancora tutta da combattere e da vincere, il Battaglione “San Marco”, quelli mandati avanti a tutti per difendere il resto, e avete offerto i vostri petti nudi alle prime mitragliate del nemico che vi ha tranciato senza pietà. Lui non ne ha avuta, mi chiedo se ne abbiamo noi che vi vediamo scomparire dalle nostre case prelevati da operatori sanitari vestiti da palombari e perdiamo di voi ogni traccia, privati della parola, dello sguardo, del gesto che accompagnano i riti del morire. Abbiate pietà della nostra freddezza e dell’inconfessato godimento che proviamo nei bollettini della sera per non essere nel vostro cumulo, per essere ancora vivi con aria nei polmoni e sangue caldo nelle vene.
Non abbiamo consapevolezza che con voi scompare una parte di mondo, una fetta di ricordi, giochi fatti da bambini, il primo bacio, una sbucciatura dei ginocchi nel cortile di casa, sogni, progetti, abbracci dati o attesi invano. Nietzsche scriveva «Molti muoiono troppo tardi, e alcuni troppo presto. Ancora suona insolita questa dottrina: “Muori al momento giusto!”. Muori al momento giusto: così insegna Zarathustra. Certo, colui che mai vive al momento giusto, come potrebbe morire al momento giusto?».
Scusate questa citazione di un grande filosofo non credente che mette il dito nella piaga, non è per
voi che siete fuori del tempo pericoloso della vita, ma per noi che, nel tempo accelerato, abbiamo perso il gusto di vivere e per questo non sappiamo più morire. Nella corsa forsennata ci siamo estraniati a noi stessi, non abbiamo più goduto dell’affetto dei parenti e degli amici, del canto degli uccelli, dell’esultanza della Primavera, del colore rubino del vino, di un abbraccio, di una parola, di un silenzio. Sempre fuori casa, fuori di noi, fuori del “momento giusto” per vivere, fuori della gioia, sempre esuli.
Ora una peste ci ha tappati in casa e ci stiamo a disagio, arrabbiati, pronti a riprendere la corsa non appena ci daranno il segnale agognato e scenderemo nelle piazze a festeggiare tutta la notte come se niente fosse accaduto. Voi non ci sarete. Vi chiediamo perdono perché vi avremo dimenticato, forse lo abbiamo già fatto oggi per difenderci, e ci basta pensarvi numeri, caduti in guerra nel 2020 quando, in maniera sparsa, le nazioni e i continenti si mossero contro un nemico comune.
Di che cosa vi abbiamo privato? Perché sono qui a chiedervi perdono? La morte è un evento ineluttabile, non dipende da noi, ma da noi dipende il…morire. La morte riguarda tutti, anche un passero, una quercia, una cosa, ma il morire è un fatto personalissimo che solo noi uomini possiamo vivere. Riguarda il modo solenne con cui si può incedere, l’attardarsi con lo sguardo sulle cose, accarezzare con gli occhi persone e cose, piante ed oggetti, le pareti di casa, dire parole, scrivere testamenti, pronunziare una benedizione sui figli. Questo e tanto altro rientra nel morire che è un fatto personalissimo, varia da persona a persona, esprime la grandezza di un uomo che
consapevolmente si avvicina alla morte facendone un dono. Di tutto questo noi vi abbiamo privato e defraudato i vostri familiari che non hanno avuto il conforto di veglie affollate e abbracciate, di preghiere recitate tra le lacrime, di porte di chiese che si aprivano come braccia materne. Perdonateci.
Siamo certo lontani dal carro dei monatti che girava per Milano a raccattare i cadaveri come venditori ambulanti, ma l’effetto è identico, fretta nell’isolare i malati, assenza di notizie, valige rimandate indietro con la corona del rosario e la biancheria personale, operatori in tuta che si avvicinano per controllare sui monitor i valori di riferimento, stanze anonime dove si cercano inutilmente, in brandelli di coscienza, le immagini note e i volti cari. I nostri medici e tutti gli operatori sanitari sono eroi che rischiano la vita ogni giorno per noi e mai saremo sufficientemente riconoscenti nei loro confronti, non è per loro questa affettuosa protesta, ma per me e per tanti altri che guardano dalla finestra lo scorrere della peste ed il suo corteo di vittime.
Carissimi morti, ora che siete vivi pregate per noi che siamo morti nel cuore e non capiamo che il morire è un atto solenne cui va data importanza ed ascolto. Nella scena della peste di Milano, nella volgarità e nella banalità della morte, Manzoni scrive una pagina mirabile sulla bellezza del morire quando racconta l’incedere della “Madre di Cecilia”: porta sulle braccia la figlia morta come si porta una bambina a Battesimo, con la veste bianca, i capelli ben pettinati come per una festa. I monatti abituati ad ammassare cadaveri senza alcuna cura colgono il dolore della donna, la bellezza della piccola morta, la tristezza del distacco, il dramma del momento e, per un attimo, si inteneriscono e fanno spazio con cura alla giovane vittima sul carro della morte.
La “Madre di Cecilia” è un capolavoro sull’arte di trasformare l’evento della morte in una liturgia del morire. Lo so, carissimi morti, molti cestineranno questa lettera come voce fuori dal coro, ma io a voi volevo rivolgermi e non ad altri, a nome di tutti desideravo chiedervi perdono, assicurarvi, ma questo già lo sapete, che il vostro vescovo e i vostri parroci ogni giorno celebrano per voi,
come in un rito funebre “assente cadavere”, e chiedervi di aiutarci a “vivere nel momento giusto per morire al momento giusto”.
Stavo per chiudere con “Pace e Bene!”, ma mi accorgo che voi non ne avete bisogno ora che siete nella Pace piena e nel Bene sommo. Voi non ne avete bisogno. Noi sì.